Il proconsole Quinziano fu certamente il principale responsabile del martirio di Sant’Agata,
partendo dal suo arresto fino a tutto un insieme di abusi di potere che avrebbero portato la santa di Catania al processo prima e poi a perire. Il paradosso della sua vicenda infatti sta proprio in simili abusi, negli eccessi e nelle ingiustizie mosse verso la giovane che lo portarono, dopo la morte di questa, alle sue ultime e tormentate ore di vita.
Quinziano, da conoscitore della giurisprudenza romana, si era reso conto, sin da subito, di aver agito ai limiti della legalità, sfruttando la sua posizione privilegiata per scopi vili ed egoistici. Il popolo tutto lo sapeva, e questo era il suo più grande timore. Infatti, secondo un’antica legge, ovvero la Lex Laetoria, la popolazione avrebbe avuto diritto a insorgere contro chiunque – a prescindere dalla funzione pubblica che il soggetto avrebbe potuto ricoprire – con una sommossa atta a punire eventuali abusi di potere o posizione, proprio verso giovani ragazze tra l’età di diciotto e venticinque anni. A seguito di tale legge Quinziano aveva passato ore terribili, nascondendosi nei vicoli e nella sua dimora, per paura di essere preso e messo alla pubblica gogna e ucciso violentemente. Il germe della paranoia portò il proconsole, ben presto, a fuggire a cavallo, cercando rifugio altrove, in attesa che le acque si calmassero.
Quinziano, da conoscitore della giurisprudenza romana, si era reso conto, sin da subito, di aver agito ai limiti della legalità, sfruttando la sua posizione privilegiata per scopi vili ed egoistici. Il popolo tutto lo sapeva, e questo era il suo più grande timore. Infatti, secondo un’antica legge, ovvero la Lex Laetoria, la popolazione avrebbe avuto diritto a insorgere contro chiunque – a prescindere dalla funzione pubblica che il soggetto avrebbe potuto ricoprire – con una sommossa atta a punire eventuali abusi di potere o posizione, proprio verso giovani ragazze tra l’età di diciotto e venticinque anni. A seguito di tale legge Quinziano aveva passato ore terribili, nascondendosi nei vicoli e nella sua dimora, per paura di essere preso e messo alla pubblica gogna e ucciso violentemente. Il germe della paranoia portò il proconsole, ben presto, a fuggire a cavallo, cercando rifugio altrove, in attesa che le acque si calmassero.
Secondo testimonianze oculari del tempo, in particolare quella di uno scrivente che aveva raccontato ogni singola fase del martirio di Sant’Agata, Quinziano lasciò Catania la sera stessa, a poche ore dalla morte della martire. Tentò di trovare rifugio in alcuni suoi poderi in campagna ma per arrivarvi fu costretto a dover
risalire il fiume Simeto a cavallo. La storia vuole che, tanto quest’ultimo, quanto il fiume, si opponessero alla fuga del proconsole macchiatosi del sangue di una giovane. Il cavallo infatti iniziò a fuggire dal suo controllo. Nonostante i tentativi disperati del proconsole di riportarlo sulla terra ferma, questi si gettava verso i meandri del fiume, che con la sua forza innaturale trascinava via ogni cosa. Stremato, Quinziano si abbandonò al volere del cavallo e fu così che, di lì a poco, questi – ormai imbizzarrito – fece carambolare in acqua il proconsole che tentava di fuggire lontano da Catania. Le correnti del fiume Simeto in piena trascinarono nelle sue profondità il corpo colpevole di Quinziano, che non riuscì più a riemergere né per chiamare aiuto, né per chiedere perdono per il delitto compiuto. La fuga non sarebbe servita a nulla, il timore di essere travolto dalla marea di Catanesi in cerca di vendetta lo portò ad incontrare ugualmente la morte nel fiume, lasciando nel silenzio delle acque che scorrono tutto il peso della sua colpa.
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