Il 2020 è stato un anno decisamente particolare e il 2021 non si preannuncia molto diverso. Gran parte delle nostre abitudini sono state cambiate e, con esse, anche ricorrenze e festività hanno mutato il loro volto. A questa particolare congiuntura non si è potuto sottrarre nemmeno il Carnevale, festività solitamente portatrice di sorrisi, di coriandoli, di gioia. Ogni cosa è stata rinviata a un momento migliore; la pausa ha però offerto la possibilità di fermarsi un attimo a riflettere su quello che è cambiato, ma anche su ciò che è stato.
Abbiamo così deciso di raccogliere e pubblicare una testimonianza di una nostra lettrice, che ci ha raccontato di un’usanza carnascialesca che ha preso piede anche in territorio etneo, oltre a essere diffusa in tutta Italia. Questa peculiarità del Carnevale che fu è ormai andata perduta ma, appunto, ha ritrovato spazio sulle pagine informatiche di questo blog e si offre a una nuova lettura.
Dominò: la perduta usanza delle maschere di Carnevale
“Era il martedì grasso del 2021, il mondo fermo per una pandemia, le strade vuote in
un silenzio assordante interrotto dai sibili di Burian, il vento gelido di origini
siberiane.
Era il momento in cui ognuno di noi realizzava, ancora una volta, le conseguenze di
questo nemico invisibile chiamato coronavirus e si abbandonava ai ricordi.
Fu quel pomeriggio che mia madre mi disse: «ti ho mai raccontato di quella volta che
mi vestii da dominò?»
«Dominò?» risposi «Mai sentito pronunciare, cos’è?» Così iniziò il suo racconto.
Dalla fine del 1800 circa e fino alla fine degli anni 60, per carnevale le donne si
travestivano o, almeno, si “oscuravano” in un abbigliamento che impediva loro di
essere riconosciute.
In questa rinata forma di libertà esse erano libere di uscire per le strade senza essere
accompagnate da un uomo e soprattutto erano libere di sceglierne qualcuno per
… andare in qualche bar e farsi comprare dolciumi varii! Addirittura, era loro
permesso di prendere qualche uomo sottobraccio – naturalmente senza poter
parlare altrimenti sarebbero state riconosciute a scapito della loro buona
reputazione.
Dominò: il costume perduto da Carnevale
Il costume da dominò era formato da un vestito di raso nero, lungo fino ai piedi,
sufficientemente largo da permettere di indossare qualche maglione in più ma
soprattutto ampio tanto da mascherare qualsiasi forma di femminilità.
La testa veniva ammantata da un cappuccio che continuava in una mantellina, sempre di
raso nero ma stavolta rivestiti da raso colorato, unico vezzo, insieme a qualche
lustrino o rifinitura dorata, di un abito quasi inquietante come le nere e misteriose
figure che si aggiravano per le strade dei “carnevali” che furono.
Anche il volto, naturalmente, veniva coperto. Erano mascherine con veletta a
ricoprire anche la bocca che completavano l’abbigliamento, insieme a guanti e
borsetta, quest’ultima praticamente un sacchetto che serviva a riporre cioccolatini,
significativi Baci Perugina che lasciavano intendere qualche sentimento represso.
Quando mia madre si vestì da dominò aveva 14 anni, una sua amica la invitò in
questa “avventura” e le prestò anche il costume.
Mi raccontò che l’elastico del cappuccio era troppo stretto e che,scendendole sul volto,
le abbassava la mascherina perciò spesso non vedeva più niente.
Non solo, era anche piuttosto timida e maldestra nel non farsi riconoscere, nonostante
tutto portò al bar il ragazzo che in quel periodo le faceva battere il cuore e stare
sottobraccio con lui fu più dolce di tutti i prodotti del bar di quella sera.
Peccato che l’indomani a scuola lui confessò di averla riconosciuta! «Ma che dici»
rispose mia madre tra lo stupore e l’imbarazzo «Come potevi riconoscermi, niente di
me era visibile!»
«…e tu pensi che non avrei riconosciuto due occhi così?»
Dopo il fallimento di quest’esperienza, come si può capire, mia madre non si vestì
più da dominò. Questo anche perché i costumi cambiarono: era il 1969 e l’eco dei
rinnovamenti del ’68 tendeva a liberare le donne da tanti condizionamenti.
Fu così che gli abiti da dominò furono prima conservati e poi dimenticati.”
Crediti a Rosaria Guarrera per la testimonianza